Omelie

Omelia di don Rinaldo del 21 luglio 2019 - Per Anno XVI (Anno C)

Misteriosa, sublime, ma anche pedagogica la pagina biblica che narra la scena che si svolse, molti secoli fa, sotto la quercia di Mamre. Eravamo agli albori della nascita di quello che verrà definito “il popolo di Dio”. Il protagonista di quella esperienza fu Abramo, per la cui fede incrollabile ancor oggi è chiamato dai monoteisti il padre dei credenti. Abramo non ha figli ed è già anziano. Ma Abramo è l’uomo la cui preghiera è: “Dio provvederà”.

Ed eccoci all’evento, da noi con religioso ascolto, accolto. Tre signori sconosciuti sbucano dal deserto e si avvicinano all’oasi di Mamre. Abramo non pone domande, ma immediatamente offre loro splendida ospitalità. Non è più Abramo il padrone, ma i tre viandanti. Li accoglie con venerazione e li chiama al singolare “mio signore”. Trasforma l’accoglienza in un rito, con la lavanda dei piedi e con la condivisione del pane, del latte e della carne fresca. Lui in piedi in stato di servizio e loro seduti al posto d’onore sotto l’albero. Scene d’altri tempi.

Ricordo un rito di allora quasi quotidiano. Quando la famiglia, a mezzogiorno, smetteva il lavoro dei campi e si riuniva attorno alla tavola per pranzare, in modo sommesso si percepiva una preghiera provenire dalla socchiusa porta d’ingresso. Era il modo umile e dignitoso con cui i poveri chiedevano una fetta di polenta, un pezzetto di formaggio, un bicchier di vino e magari una scodella di farina per la famiglia. In quel giorno, il nostro modesto pasto di famiglia, condiviso con i più poveri, non diventava più povero. Noi ragazzi imparavamo la lezione: accogliere il povero con gli onori della nobiltà. Chi riceveva e chi donava, concludeva il rito dicendo: “Grazie”.

Oggi sono cambiati sia i poveri che i ricchi, sia il modo di chiedere, di accogliere e di donare. Oggi si è inquinata la fiducia reciproca, causa la delinquenza diventata sistema e la conseguente diffidenza. Ma, nonostante questo nuovo clima che richiede prudenza prima della accoglienza e legittimo sospetto prima della fiducia, siamo chiamati a meditare questi valori che vogliamo ristabilire nelle nostre comunità. Dobbiamo rivedere la nostra disponibilità verso gli altri, non solo familiari, amici, vicini, conoscenti, ma anche forestieri, immigrati, stranieri, diversi da noi per razza, cultura, religione e scomodi.

Ma non basta una generica disponibilità. È necessario presentarci al banco dell’accoglienza tutti con le carte in regola, che si possono riassumere in una parola: identità. Non si può accogliere senza sapere chi si accoglie. Né colui che è accolto deve ignorare chi sono io che accolgo.

Oggi non basta in questo muoversi di masse aprire o chiudere porte a seconda dell’interesse economico o politico. È necessario confrontare culture, offrire reciproche opportunità e, soprattutto, rispettare le reciproche identità. “Sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi” ci dice l’apostolo Paolo. L’accoglienza non è senza sofferenza, ma sia una sofferenza virtuosa sia per chi chiede sia per chi dona, in una civiltà di reciprocità.

don Rinaldo Sommacal