Omelie

Omelia di don Attilio del 1 aprile 2018 - Pasqua (Anno B)

Pietro e Giovanni corrono nel silenzio della città ancora immersa nel sonno. Il sole si sta alzando e inonda di luce la pietra che riveste le abitazioni di Gerusalemme. Tra gli stretti vicoli della città, calpestando il selciato appena rifatto dal grande re Erode, il fiato corto, i due escono dalla città. Corrono lasciando al loro fianco la cava di pietra in disuso riutilizzata dai romani. Le croci, come alberi rinsecchiti, svettano in alto, aspettando nuovi condannati. Il sangue rappreso tinge di rosso il legno scuro.

Corrono, ancora, il fiato manca, la tunica impaccia la corsa. Pietro, meno giovane, si attarda; scendono rapidamente oltre la cava. I soldati romani di guardia sono spariti, la tomba di Giuseppe di Arimatea è aperta, la pesante pietra che ne bloccava l'ingresso ribaltata.

Giovanni aspetta. Ripensa al volto sconvolto di Maria che, dieci minuti prima, lo aveva svegliato parlando del furto del corpo di Gesù. Arriva Pietro. Giovanni lo guarda lungamente, poi abbassano la testa ed entrano.

Nulla. Gesù è scomparso. Nulla, solo il lenzuolo.

Il racconto era iniziato con un tono tragico, inquietante; tutto odorava di morte, di fine tragica. Poi, tutto si era animato: Maria era corsa dai discepoli, poi erano corsi Pietro e Giovanni. Meglio: Pietro e il discepolo che Gesù ama, quello che ha partecipato a tutti gli eventi principali della vicenda di Gesù. Siamo chiamati a correre, ad andare a vedere colui che ha ucciso la morte.

Cosa vedono di due? Nulla. Un padre della Chiesa, Giovanni Crisostomo, osserva argutamente che vedendo la tomba in ordine capiscono che Gesù non è stato trafugato, nessun ladro si ferma a rimettere in ordine la casa che ha svaligiato.

Tutto è iniziato da quella corsa. Quella tomba vuota, ultimo drammatico regalo fatto a Gesù da parte del discepolo Giuseppe di Arimatea, ricco e potente, che non aveva potuto salvare dalla morte il suo Maestro, è rimasta lì, vuota, a Gerusalemme, muta testimone della resurrezione.

La tomba è ancora lì: è lì, quella tomba, esattamente lì dove la trovarono Pietro e Giovanni. Ed è rimasta vuota.

Tutta la nostra fede è basata sull'assenza di un cadavere. La morte è stata sconfitta. Il Dio nudo, appeso, osteso, evidente, il Dio sconfitto e straziato, il Dio deposto sulla fredda pietra non è più qui, è risorto. Risorto. Non rianimato, non ripresosi, non vivo nel nostro ricordo e amenità consolatorie di questo genere. Gesù è davvero vivo, risorto, presente per sempre.

Non è facile credere a questa notizia. Incontreremo, in questi cinquanta giorni, la fatica che hanno fatto gli apostoli, che è la nostra, a convertire il cuore a questa sconcertante novità. Ci vuole fede per superare il proprio dolore. Tutti abbiamo una qualche ragione per sentire vicino Gesù crocifisso. Tutti ci commuoviamo davanti a tale strazio, tutti sappiamo condividere il dolore che è esperienza comune di ogni uomo. Ma gioire no; gioire significa uscire dal proprio dolore, superarlo, abbandonandolo.

Corriamo anche noi, oggi. Pasqua è la vittoria dell'amore, la pienezza della vita. A noi, ora, di credere, di vivere da risorti, di vedere i teli di lino e di credere, come Giovanni e Pietro. A noi, discepoli affannati nella corsa, sempre in ritardo rispetto alla forza  di Dio, resta solo la sfida della fede.

Gesù è risorto. Buona Pasqua a tutti. Buona Pasqua: Gesù è veramente risorto.

don Attilio Zanderigo