Omelie

Omelia di don Attilio del 9 luglio 2017 - Per Anno XIV (Anno A)

"Venite a me voi tutti che siete affaticati ed oppressi." Gesù nella sua apertura confidenziale al Padre gli rende lode per il dono dell'umiltà, della mitezza e della semplicità e soprattutto per avergli dato l'occasione di mostrare la sua predilezione appunto agli ultimi e ai dimenticati. Gesù mostra il volto di un Dio che rifugge ogni sapienza umana, anzi come dirà poi Paolo, un Dio la cui sapienza non è di questo mondo, ma che coincide con ciò che il mondo definisce stoltezza. "Quando sono debole, è allora che sono forte", dirà infatti l'apostolo, delineando che la vera forza di Dio risiede in tutto ciò che noi definiamo debolezza: "Ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è: più forte degli uomini."

Gesù invita a se proprio coloro che, confusi e disorientati in questo mondo, ne sono avviliti e scoraggiati; avvicina quanti hanno perso la fiducia in un sistema ingiusto, perverso e arrivista, che non lascia spazio alla semplicità e all'umiltà. Si rivolge a quanti non possono o non vogliono competere con i "sapienti" di questo mondo, cioè con gli arrivisti, gli ipocriti. A tutti coloro che soccombono alla prevaricazione e all'ingiustizia e che sembrano non avere voci in capitolo semplicemente perché non hanno un nome o una posizione; a quanti passano inosservati e non emergono perché rifiutano millanterie e atti smaliziati e interessati, Gesù rivolge queste parole di consolazione: "Venite a me, voi tutti che siete affaticati e oppressi e io vi darò ristoro. Imparate da me, che sono mite e umile di cuore. Il mio giogo è dolce e il mio carico leggero."

Il "giogo" nell'Antico Israele era il simbolo che indicava la Legge di Mosè, sulla cui ottemperanza si fondava la vita del popolo e la fedeltà a Dio. Adesso Gesù pone una nuova interpretazione a questo concetto: il giogo consiste semplicemente nell'abbandonarsi a Dio e nel riporre fiducia in lui, nel lasciare che lui per primo ci ami disinteressatamente nel suo Figlio, nel lasciarci coinvolgere dalla gratuità del dono che è lo stesso Figlio di Dio. E in effetti lasciare fare a Dio quanto all'amore non comporta alcun gravame e non richiede competenza o maestria. Consiste semplicemente nel concedere che in Cristo Dio ci ami e ci prediliga e pertanto trovare in lui quella soddisfazione che il consumo e l'arrivismo non sono in grado di offrire.

Sarà Dio stesso a ricompensare adeguatamente chi si sottopone a questo "giogo" perché egli stesso, nell'umiltà e nel nascondimento vive il "giogo" della comunione filiale con il Padre. Se il mondo elude la vera sapienza di Dio, Cristo ce ne fa sperimentare l'efficacia e il trionfo finale. Occorre allora non demordere nel coltivare la fede, la speranza, la carità e soprattutto la virtù fondamentale per cui esse possono spiccare il volo: l'umiltà. Essa certamente ha il suo prezzo agli occhi del mondo ma alla fine trasforma in merito tutto ciò che il mondo interpreta come demerito.

Abbiamo sentito che il Signore loda il Padre perché ha nascosto il grande mistero del Figlio, davanti ai sapienti, ai dotti, ma lo ha rivelato ai piccoli,a quelli che non sono dotti, che non hanno una grande cultura. A loro è stato rivelato questo grande mistero. Poi, durante tutta la vita pubblica del Signore troviamo la stessa cosa. È inaccessibile per i dotti comprendere che questo uomo non dotto, galileo, possa essere realmente il Figlio di Dio. Rimane inaccettabile per loro che Dio, il grande, l'unico, il Dio del cielo e della terra, possa essere presente in questo uomo. Sanno tutto, conoscono anche Isaia 53, tutte le grandi profezie, ma il mistero rimane nascosto. Viene invece rivelato ai piccoli, iniziando dalla Madonna fino ai pescatori del lago di Galilea. Essi conoscono, come pure il capitano romano sotto la croce conosce: questi è il Figlio di Dio. 

I fatti essenziali della vita di Gesù non appartengono solo al passato, ma sono presenti, in modi diversi, in tutte le generazioni. E così anche nel nostro tempo, negli ultimi duecento anni, osserviamo la stessa cosa. Ci sono grandi dotti, grandi specialisti, grandi teologi, maestri della fede, che ci hanno insegnato molte cose. Sono penetrati nei dettagli della Sacra Scrittura, della storia della salvezza, ma non hanno potuto vedere il mistero stesso, il vero nucleo: che Gesù era realmente Figlio di Dio, che il Dio trinitario entra nella nostra storia, in un determinato momento storico, in un uomo come noi. L'essenziale è rimasto nascosto! Si potrebbero facilmente citare grandi nomi della storia della teologia di questi duecento anni, dai quali abbiamo imparato molto, ma non è stato aperto agli occhi del loro cuore il mistero.

Invece, ci sono anche nel nostro tempo i piccoli che hanno conosciuto tale mistero. Pensiamo a santa Bernardette Soubirous; a santa Teresa di Lisieux, con la sua nuova lettura della Bibbia « non scientifica », ma che entra nel cuore della Sacra Scrittura; fino ai santi e beati del nostro tempo: santa Giuseppina Bakhita, la beata Teresa di Calcutta, san Damiano de Veuster. Potremmo elencarne tanti!

Ma da tutto ciò nasce la questione: perché è così? È il cristianesimo la religione degli stolti, delle persone senza cultura, non formate? Si spegne la fede dove si risveglia la ragione? Come si spiega questo?

Forse dobbiamo ancora una volta guardare alla storia. Rimane vero quanto Gesù ha detto, quanto si può osservare in tutti i secoli. E tuttavia c'è una « specie » di piccoli che sono anche dotti. Sotto la croce sta la Madonna, l'umile ancella di Dio e la grande donna illuminata da Dio. E sta anche Giovanni, pescatore del lago di Galilea, ma è quel Giovanni che sarà chiamato giustamente dalla Chiesa « il teologo », perché realmente ha saputo vedere il mistero di Dio e annunciarlo: con l'occhio dell'aquila è entrato nella luce inaccessibile del mistero divino. 

Così, anche dopo la sua risurrezione, il Signore, sulla strada verso Damasco, tocca il cuore di Saulo, che è uno dei dotti che non vedono. Egli stesso, nella prima Lettera a Timoteo, si definisce « ignorante » in quel tempo, nonostante la sua scienza. Ma il Risorto lo tocca: diventa cieco e, al tempo stesso, diventa realmente vedente, comincia a vedere. Il grande dotto diviene un piccolo, e proprio per questo vede la stoltezza di Dio che è saggezza, sapienza più grande di tutte le saggezze umane.

Potremmo continuare a leggere tutta la storia in questo modo. Solo un'osservazione ancora. Questi dotti sapienti, sofòi e sinetòi, nella prima lettura, appaiono in un altro modo (lsaia 11,1-10). Qui sofìa e sìnesis sono doni dello Spirito Santo che riposano sul Messia, su Cristo. Che cosa significa? Emerge che c'è un duplice uso della ragione e un duplice modo di essere sapienti o piccoli. 

C'è un modo di usare la ragione che è autonomo, che si pone sopra Dio, in tutta la gamma delle scienze, cominciando da quelle naturali, dove un metodo adatto per la ricerca della materia viene universalizzato: in questo metodo Dio non entra, quindi Dio non c'è. E così, infine, anche in teologia: si pesca nelle acque della Sacra Scrittura con una rete che permette di prendere solo pesci di una certa misura e quanto va oltre questa misura non entra nella rete e quindi non può esistere. Così il grande mistero di Gesù, del Figlio fattosi uomo, si riduce a un Gesù storico: una figura tragica, un fantasma senza carne e ossa, un uomo che è rimasto nel sepolcro, si è corrotto ed è realmente un morto. Il metodo sa «captare» certi pesci, ma esclude il grande mistero, perché l'uomo si fa egli stesso la misura: ha questa superbia, che nello stesso tempo è una grande stoltezza perché assolutizza certi metodi non adatti alle realtà grandi; entra in questo spirito accademico che abbiamo visto negli scribi, i quali rispondono ai Re magi: non mi tocca; rimango chiuso nella mia esistenza, che non viene toccata. È la specializzazione che vede tutti i dettagli, ma non vede più la totalità.

E c'è l'altro modo di usare la ragione, di essere sapienti, quello dell'uomo che riconosce chi è; riconosce la propria misura e la grandezza di Dio, aprendosi nell'umiltà alla novità dell'agire di Dio. Così, proprio accettando la propria piccolezza, facendosi piccolo come realmente è, arriva alla verità. In questo modo, anche la ragione può esprimere tutte le sue possibilità, non viene spenta, ma si allarga, diviene più grande. Si tratta di un'altra sofìa e sìnesis, che non esclude dal mistero, ma è proprio comunione con il Signore nel quale riposano sapienza e saggezza, e la loro verità.

In questo momento vogliamo pregare perché il Signore ci dia la vera umiltà. Ci dia la grazia di essere piccoli per poter essere realmente saggi; ci illumini, ci faccia vedere il suo mistero della gioia dello Spirito Santo, ci aiuti a essere veri teologi, che possono annunciare il suo mistero perché toccati nella profondità del proprio cuore, della propria esistenza. 

don Attilio Zanderigo