Omelie

Omelia del 17 luglio 2016 - PER ANNO XVI (Anno C)

 

Gesù a Betania, sobborgo di Gerusalemme, trova il calore dell’ospitalità. Nomade come egli è, senza neppure una pietra per guanciale per la notte, in quella casa periferica egli gusta il sapore dell’amicizia, dell’intimità, della quiete serena. Ed è proprio a questo punto che possiamo introdurre il tema centrale del racconto lucano.

Protagoniste diventano le due donne, le quali, però non sono simbolo di due stati esterni di vita, come spesso si è creduto, ma di due atteggiamenti  interiori. Da un lato c’è Marta, “tutta presa dai molti servizi”, preoccupata e agitata per molte cose. Come è evidente, l’accento cade sulla totalità di un assorbimento, l’agire diventa assoluto, la frenesia delle cose colma l’intera persona non lasciandole più nessuno spazio aperto. Dall’altra parte della scena c’è Maria la cui rappresentazione ideale non è tanto la sua posizione materiale (seduta ai piedi di Gesù), ma nel significato simbolico di quel gesto che nel linguaggio biblico  indica il discepolato. Infatti la frase fondamentale  che la descrive è: “ascoltava la sua parola”.

Giungiamo, così, al vertice della lezione di Gesù, a quella “parte migliore”, a “quella cosa di cui c’è bisogno”. In mezzo alle vicende dell’esistenza bisogna sempre tenere aperto un canale di ascolto verso l’infinito. Bisogna impedire che il, nostro essere venga tutto preso dalle cose da fare. Non è rilevante essere in una affollata città, in una cucina, in un ufficio, in una aula scolastica, in un monastero, in uno spazio sacro. In tutti i luoghi si può essere assorbiti dalla distrazione, dalla frenesia dell’azione, dalla esteriorità.

Concludiamo con una testimonianza che stupirà i nostri ascoltatori intellettuali, quando sentiranno da chi proviene. Scrive: “Per ritrovare un’idea dell’uomo, ossia una vera fonte di energia, bisogna che gli uomini ritrovino il gusto della contemplazione. La contemplazione è la diga che fa risalire l’acqua nel bacino. Essa permette agli uomini di accumulare di nuovo l’energia di cui l’azione ci ha privati”. Così scriveva nel 1964 Alberto Moravia nel suo saggio: “l’uomo come fine".

don Rinaldo Sommacal