Omelie
Omelia del 4 agosto 2013 - Domenica XVIII Per Anno (C)
La prima pagina proclamata da questo ambone e da tutti noi attentamente accolta, ci lascia piuttosto sconcertati. Sembra un inno al peggiore dei pessimismi ed un incoraggiamento al disfattismo generale, quasi volesse dire: “Cosa importa fare! Non vale la pena vivere!”
Certamente Qoelet, ispirato da Dio con quella secca affermazione, ripetuta con un crescendo che mette paura a tutti, citato da ogni cultura, ha qualcosa da dirci. Cominciamo con il declassare la parola ‘vanità’ da soggetto principale del discorso, quasi fosse l’indiscussa protagonista della vita dell’uomo sulla terra. Scopriamo il vero soggetto del discorso del Qoelet, volutamente messo in penombra dal veggente.
Il vero soggetto, se posto in luce vera, tutto capovolge in positivo. Ritornerebbe la nostalgia di una vita non immolata sull’altare della vanità, ma amata e vissuta come dono che aspira a diventare un libero e gioioso SI al donatore ed ai propri simili. Il soggetto principale del brano fa timidamente capolino tra gli innumerevoli ‘vanità delle vanità: tutto è vanità.
Qual è questo soggetto che svela e trafigge la cultura della vanità, che tutto riduce a vanità? Lo troviamo in una affermazione seminascosta. Se, però, non sappiano coglierla e seguirla, torniamo ad essere preda della vanità, quindi dell’angoscia che ci fa dire che la vita è una disgrazia anziché il dono più bello che, senza alcun merito, abbiamo ricevuto da Dio e dai nostri amati e benemeriti genitori. Dice Qoelet: “Quale profitto viene all’uomo da tutta la sua fatica e dalle preoccupazioni del suo cuore, con cui si affanna sotto il sole? Questo è vanità e un grande male”.
Ecco scoperta la causa che rende vana la vita dell’individuo: del saggio e dello stolto, del povero e del ricco, del credente e dell’incredulo, del potente e del debole, di colui che è sulle pagine dei giornali tutti i giorni e di colui che è un ‘nessuno’ per gli altri. Non è l’occupazione a rendere vana una vita, (anzi! Guai all’ozio), ma la pre-occupazione. Lo spillo che buca la camera d’aria del nostro fine per il quale siamo stati messi al mondo, è l’idolatria del fare, del possedere. Tale schiavitù uccide la gioia dell’essere.
E’ una falsa divinità che toglie la pace anche a chi, con il suo fare, ha generato fortune consistenti che gli fanno dire: “Anima mia, godi per molti anni”, pur sapendo che è una bugia, poiché la preoccupazione ad avere sempre di più non ha confini, diventa un ‘credo’ che fa dell’avere il proprio dio a cui dedicare tutte le forze e magari anche quelle di coloro che, per la sopravvivenza, si accontentano di raccogliere le briciole che cadono dalla mensa degli Epuloni ai quali diciamo: “Date per tempo e largamente ai veri poveri”.
Se siamo anche noi intaccati da quella divinità che rende vano il nostro vivere, Paolo ci dice: “Cercate le cose di lassù!”. Gesù, poi, indica l’antibiotico che abbatte il virus della vanità. Ci dice: ”Tenetevi lontani da ogni cupidigia”. Infatti, quando la cupidigia diventa una religione, lì il vero Dio non è più di casa. Dove Dio è cacciato, lì torna imperante il ‘vanitas vanitatum et omnia vanitas”.
Don Rinaldo Sommacal